Oggetto del mese
Cippo di Publeia Tertia
Pietra calcarea
Altezza cm 103; larghezza cm 20; spessore cm 10,8
La Torre, fra Campegine e Castelnovo Sotto (prov. Reggio Emilia)
II – III secolo d.C.
Il Reggiano restituisce testimonianze della diffusione di culti orientali nella media età imperiale romana. Forse la più significativa è offerta dal cippo in pietra calcarea vicentina, rinvenuto nel 1845 alla Torre in territorio di Campegine. Il monumento sepolcrale era infisso nel terreno al di sopra di una sepoltura che conteneva i resti di quattro defunti, inumati, due dei quali erano bambini. All’interno della tomba si raccolsero poi due balsamari in vetro, frammenti di un’anfora, una patera in rame, un’ascia in bronzo ed una lucerna in terracotta contrassegnata dal marchio di fabbrica FORTIS.
Le caratteristiche del cippo inducono a ritenerlo di derivazione egiziana. Esso infatti sembra riprodurre in modo stilizzato una mummia avvolta nelle sue bende, con un’apertura nella parte superiore attraverso la quale appare il volto della defunta, incorniciato da vittae pendenti ai suoi lati. Potrebbe rappresentare il tipico sarcofago egiziano, e forse imitare i cosiddetti ritratti funerari del Fayum. Quanto alla defunta, è tentante pensare che possa essere identificata con una sacerdotessa di Iside, il cui culto si diffonde nell’Italia settentrionale fra II e III secolo d.C.
L’iscrizione incisa nella parte superiore del cippo, appena al di sotto del ritratto, commemora Publeia Tertia, figlia di Marco.
Gli indiscutibili influssi stilistici egittizzanti del monumento funebre sembrano attestare la diffusione anche tra le comunità rurali dell’agro reggiano di culti provenienti dalla lontana valle del Nilo.
L’iscrizione si data al II – III secolo d.C.
Questo rinvenimento può essere messo in relazione con un nucleo di materiali di produzione egiziana, venuto alla luce “nel fondo Marinelli alla Torretta”, cioè in prossimità del luogo della scoperta del cippo di Publeia Tertia, secondo quanto dichiarato in un appunto manoscritto di don Gaetano Chierici. Si tratta di due bronzetti raffiguranti la dea Isi che allatta Horo, di altri tre con il dio Osiri mummiforme, di una statuina funeraria in faïence a nome Ugiahor, di tre scarabei.
Si riesce così a ricostruire un ambiente fortemente permeato dalla diffusione dei culti orientali nella pianura reggiana, nel corso della media età imperiale romana.
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