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ISPIRAZIONI
Una delle caratteristiche peculiari del collezionismo e della pratica del disegno a Reggio Emilia è – fin dai secoli trascorsi – quella di ispirarsi alla grande tradizione del passato per creare opere moderne. Esemplare, per il secolo XIX, è il caso del pittore Prospero Minghetti (1786-1853), il più noto rappresentante in città del gusto neoclassico e maestro dei più importanti artisti reggiani dell’Ottocento: da Alfonso Chierici a Giovanni e Antonio Fontanesi. I Musei Civici di Reggio Emilia conservano il più importante nucleo di disegni e studi dell’artista, dal tempo della sua formazione a Roma e Firenze fino al compimento della sua carriera pittorica. Vennero donati al museo nel 1934 da Irene Barracano Nobili insieme al complesso di “libri, modelli, disegni antichi o stampe dei quali Minghetti amò circondarsi e per la formazione della sua cultura artistica e letteraria e per la esecuzione delle sue opere di pittura”.
La sua collezione personale di disegni è dunque strumento essenziale del suo metodo di lavoro. L’artista si ispira in particolar modo alla grande tradizione bolognese del Seicento: innanzitutto i Carracci e Guido Reni, artisti attestati in alcuni fogli della sua collezione oggi dispersi, ma anche Marcantonio Franceschini (1648-1729), Francesco Monti, attivo a Bologna nel Settecento,Gaetano e Ubaldo Gandolfi (1734-1802; 1728-1781). Lo Studio di nudo di Gaetano Gandolfi è stato così affiancato a un analogo foglio concepito dal pittore reggiano intorno al 1810. La matita rossa raffigurante Diana e Endimione, ispirata a un opera assai celebre del pittore bolognese Franceschini e proveniente dalla collezione Minghetti, andrà osservata dunque insieme al delicato foglio di sua mano, di analogo soggetto. Analogamente avviene per il San Matteo e l’Angelo di scuola bolognese e il disegno con lo stesso tema di Minghetti. Altri disegni documentano l’attenzione di Minghetti anche verso alcuni modelli esemplari della cultura veneta, e in particolare le opere derivate da Jacopo Bassano (1510c.-1592) e di Jacopo Palma il Giovane (1548-1628), come evidenzia con efficacia l’inedito accostamento tra il raffinato studio del maestro veneto con Cristo tra due santi vescovi, di gusto ancora tardo manieristico e la più classica composizione dell’artista neoclassico.