a cura di Nicola Bigliardi e Maria Ares Chillon
All Art Contemporary, Palazzo Fontanelli Sacrati, 19.09 – 10.10.2021
La mostra di Giulio Cassanelli a cura di Nicola Bigliardi e Maria Ares Chillon parte da Fasezero, progetto en plen air realizzato per Fotografia Europea 2021 e che viene sviluppato all’interno dello spazio All Art Contemporary, curato dallo stesso Nicola Bigliardi.
Quello che vorrei qui proporre non è tanto un intervento critico sulla mostra, operazione già perfettamente svolta dai curatori, ma mettere in fila alcune riflessioni su un lavoro complesso e apparentemente frammentato, ma in realtà intrinsecamente coerente.
Innanzitutto è necessario citare la location: il piano nobile di Palazzo Fontanelli Sacrati è un luogo lussuoso e ridondante, spazio immersivo e già carico di significati, tra i quali un affresco sul soffitto che avrà un ruolo anche in questa installazione. La relazione tra spazi “storici” e arte contemporanea, non certo una novità, è tuttavia un valore aggiunto poiché potenzia la relazione con l’opera amplificandone la presenza fisica e le sollecitazioni sensoriali ed emotive. Si tratta dunque di un luogo che, per quanto deformato da uno sfarzo che non appartiene più al presente, si mantiene sul crinale sottile tra la monumentalità e la domesticità, che fa percepire le opere come parte di uno spazio vivente, diverso per sua natura dall’impaginazione smaterializzata e mentale del white cube.
Schegge; tecnica mista su pietre trovate per strada (2021), dimensioni variabili
Fasezero inizia come una sorta di diario del lockdown, in cui l’attore principale è un bilanciere rotto e vuoto, che è un’esortazione all’inutile e dunque all’estetico: in un periodo di paura e sconvolgimento della vita relazionale la pratica dell’arte, la produzione di sistemi simbolici è forse il modo più antico di dare un significato alle cose, essenziale per mantenere il controllo di sé stessi e la relazione col mondo.
Il bilanciere vuoto è anche un ironico riferimento ai workout casalinghi che supplivano durante i mesi di clausura all’impossibilità di accedere a palestre e praticare attività fisica. La sua de funzionalizzazione corrisponde alla sua assunzione al ruolo di immagine: nella sua fisicità viene esposto come fosse una reliquia, oggetto sacro in quanto separato e definitivamente estetizzato dal vetro della sua teca.
Due acronimi, DYOR e FOMO si fronteggiano e si riflettono nella sala degli specchi, delimitando come due parentesi lo spazio. Il primo significa Do Your Own Research, il secondo Fear Of Missin Out.
FOMO (Fear of missin Out) & DYOR (Do Your Own Research); acciaio mirror, taglio laser e plexiglass (2021), 20x10x6 cm
Sarebbe un’imperdonabile faciloneria se ignorassi quest’opera, anche se sulle prime mi ha colpito meno dei frammenti di portico “impacchettati” dalle riproduzioni delle opere d’arte che galleggiano sul soffitto riflesso del salone, una sorta di rappresentazione del lavorio cui ogni artista è costretto per introiettare e trasformare la tradizione in qualcosa di differente.
Immediatamente mi son tornati alla memoria γνῶθι σεαυτόν e μηδὲν ἄγαν, i due motti che stavano sul tempio di Apollo a Delfi e che, appunto, definivano con apollinea razionalità la necessità di ricercare sé stessi da un lato, e allo stesso tempo il monito a non esagerare dall’altro. La misura del “nulla di troppo” è ciò che definisce per i greci il perimetro entro il quale la ragione lascia il passo al caos, e si finisce per perdersi.
Mi sembra che ci sia una corrispondenza, magari non voluta dall’artista, ma che come molto spesso accade è nascosta tra le pieghe della cultura occidentale e si manifesta nei lavori più riusciti. Da un lato Cassanelli s’impone di continuare a svolgere la propria ricerca, e dunque di definire sé stesso come artista in un momento in cui si avverte il timore di perdere la propria funzione sociale e il proprio valore esistenziale; proprio questa paura di perdere (di perdersi?) è il contraltare caotico, emotivo che reagisce e allo stesso tempo patisce la volontà dell’autore. Come se, a proposito di “motti” celebri nelle arti, avesse voluto ribaltare il concetto di vanitas con un inno all’azione e alla creazione, elementi inscindibilmente legati.
Questa ricerca di equilibrio, questo spazio sottilissimo lo si trova attraverso l’ironia, che è di per sé stessa prerogativa dell’intelligenza, eccesso razionale di vitalismo, che bergsonianamente esercita un controllo sul meccanicismo irrazionale e fatale della pandemia. L’inciso, apparentemente “fuori discorso” con le terga del pavone rappresentate in due ricche serigrafie, l’ano di pollo tassidermizzato e dipinto e le copertine taroccate con Celant al posto di Maradona creano in realtà una sorta di approfondimento di questo aspetto, sospendono per qualche istante il percorso e ci spiegano che la chiave, una delle chiavi, con la quale è necessario leggere la sua ricerca è la capacità di rompere lo schema ripetitivo della rappresentazione e ribaltare la drammaticità con l’umorismo (sempre Bergson: il riso presuppone interruzione dell’empatia, sospensione del sentimento). In altre parole: separarsi dal flusso delle cose, estraniarsi dalla cogenza dell’esser nel bel mezzo di una pandemia per poterne rappresentare, e dunque vedere, un profilo più chiaro.
In questo senso mi piace leggere anche l’ultimo lavoro del percorso, in cui il rapporto tra soffice e duro dei materiali segna anche il passaggio tra la ripetitività geometrica iniziale e la vitalità più fluida del segno curvilineo che non a caso genera ritratti, richiama un rapporto con la vita degli altri non mimetico o meramente oftalmico ma tattile, sentimentale, esprimendo una potenzialità sinestetica attraverso la penetrazione (sedimentazione) del metallo caldo nel polistirolo, che fonde e introietta la forma, diviene la forma.
Doodles – Ritratti di sconosciuti; lastra di polistirene, fil di ferro (2021), 60x35cm
I Doodle sembrano, appunto, scarabocchi, ma sono in realtà prodotto di un processo di lavorazione della materia che non è istintivo e occasionale. Sono la sedimentazione sotto forma di immagine di una urgenza, come fossero ritratti deformati dalla distanza, ma generati dal bisogno di presenza.