Mothers

“In nome della madre s’inaugura la vita”

Questo principio fondante dell’esistenza di ogni individuo e di ogni civiltà, il concetto di madre nel preciso significato di dispensatrice di vita, rappresenta la sublimazione del ruolo riconosciuto alla maternità in ogni tempo e in ogni luogo.
Il progetto MOTHERS, legato a questo significato, si pone l’obiettivo di suggerire un’idea di museo quale spazio mentale dove chiunque possa trovare rappresentate le proprie storie. La riflessione intorno ad un tema sempre attuale nell’esperienza individuale e collettiva, di cui i beni culturali sono importanti testimoni, fa sì che nel museo ogni cultura possa riconoscere sé stessa e ogni uomo sentire il legame profondo tra sé e gli altri.
Le suggestioni che scaturiscono dal contatto con gli oggetti del museo, sono poste in risonanza con voci dell’esperienza contemporanea che ad esse si intrecciano all’interno del video Mothers, dove le differenti testimonianze raccolte sull’argomento acquistano valore da questa reciproca relazione. Il Museo di Reggio Emilia attraverso questo progetto, che trova la propria naturale compiutezza nella realizzazione della mostra Mothers, opera una profonda rilettura di sé stesso, attualizzando il proprio patrimonio e sottolineando la propria vocazione di simbolo forte di una città aperta ad accogliere nuovi cittadini, proponendosi come luogo in cui ognuno può riconoscersi e contribuire a plasmare una rinnovata identità collettiva. Principali protagoniste di questo progetto, le opere dei Musei Civici ci consentono di tessere un racconto che attraversa i molteplici significati che la maternità porta in sé.
Il corpo della madre, luogo di passaggio tra il nulla e l’essere, incarna fin dai tempi più remoti il mistero della nascita e il principio della vita, tanto da suscitare nell’uomo il primo senso del divino ed essere elevato a culto. Nella preistoria la Dea Madre è espressione del fascino che la Terra esercita sull’uomo per la sua capacità di generare la vita, principio che nelle società arcaiche, da sempre, si accompagna al concetto di fertilità. Nelle forme femminili volutamente accentuate della Venere di Chiozza, si nasconde questo antico sentimento, che ugualmente riconosciamo nella mitologia dei Lakota Sioux, sotto le sembianze della Donna Turbine, potenza creatrice del mondo simboleggiata dai cerchi concentrici di perline ricamati sulla faretra. Il miracolo della maternità, svelato dalla Madonna armoir che teneramente mostra il ventre arrotondato dall’attesa, si coglie anche nella rappresentazione della dea egiziana Iside che allatta il figlio Horo, la quale, in quel semplice gesto, condensa la propria natura di madre-nutrimento.Al medesimo significato di fecondità rimanda il feticcio ligneo africano, raffigurato nell’atto di dare enfasi al seno. Così forte è il senso della madre-generatrice, che nel tempo i popoli hanno dedicato ai diversi momenti che conducono la donna verso l’assunzione del proprio fondamentale ruolo, significativi rituali, volti a scandire le tappe di questo percorso. Le maschere indossate dagli uomini Ticuna durante le cerimonie connesse al raggiungimento della pubertà femminile, riflettono la centralità accordata da questa popolazione alla fase di transizione. Nel mondo romano pari valore veniva riservato al passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Per la donna, la cui natura si esauriva quasi completamente nel significato di moglie e madre, il matrimonio diveniva una sorta di preludio alla maternità, e il pieno assolvimento di questo ruolo rappresentava l’acme della sua esistenza. La società le riservava l’educazione dei futuri cittadini in nome delle tradizioni romane e il dovere di tramandare il compito di madre alle figlie, che a loro volta si preparavano a questo evento deponendo nel tempio i giocattoli e tutti i simboli connessi all’infanzia, pronte ad inaugurare una nuova fase della vita. La maternità conosce uno dei momenti di maggiore intensità nella relazione tra madre e figlio, che genera un coinvolgimento profondamente fisico tra loro, come testimonia la mamma kikuyu che lecca il suo bambino quasi per assaggiarlo, per sentirne il gusto. La magia di questo legame si coglie anche nella tradizione, diffusa tra le donne del Ghana, di un particolare bagnetto rivolto ai neonati, che ha lo scopo di modellarne il corpo attraverso massaggi e abluzioni, per renderlo forte e robusto. La tenerezza di questi gesti si trasferisce, assumendo uguale significato, negli sguardi delicati delle Madonne, quasi bambine, del Tiarini, del Morghen e della sinopia di un pittore emiliano del XV secolo. La stessa energia che scaturisce dal rapporto tra una madre adolescente ed il proprio bambino, così impenetrabile per l’osservatore esterno, è ciò che Norma Rossetti vuole suggerire nelle proprie fotografie. L’unicità del sentimento che unisce i protagonisti di questa sublime relazione, ha preso forma nell’opera di numerosi artisti, che si sono talvolta accostati a quel senso di drammatica rottura che si crea quando questo legame viene meno. Un vuoto che Moira Ricci ha cercato di colmare intraprendendo una ricerca artistica di grande poeticità, in cui recupera le fotografie che ritraggono la madre e nelle quali inserisce sé stessa, per immergersi in una dimensione rarefatta e inviolabile che va al di là del tempo e fermarlo, nell’attimo stesso in cui si rappresenta lì, accanto alla madre, per ritrovare quel tempo perduto lontana da lei. Una sospensione temporale tangibile anche nelle sepolture preistoriche, nel pensiero che si cela dietro la consuetudine di deporre il defunto in posizione fetale nel grembo della Madre Terra, rivolto in eterno verso la rinascita di un nuovo giorno.


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