Quante volte capita di notare all’interno di edifici religiosi la presenza di elementi estranei al contesto e di epoche precedenti? Quante volte, ad esempio, vediamo capitelli di colonne romane utilizzati come acquasantiere? O ancora, sarcofagi pagani riutilizzati come sarcofagi di santi o altari?
Il fenomeno del riuso dei materiali antichi nell’arte e nell’architettura dei secoli successivi è molto frequente, soprattutto nel periodo tardoantico e medievale. La religione cristiana non è stata sempre “distruttiva”; laddove ha potuto, ha infatti reimpiegato e riadattato immagini, monumenti ed edifici pagani (e quindi ritenuti profani), attribuendo loro significati nuovi. In diversi casi i templi sono stati convertiti in chiese e le terme in battisteri; similmente, nell’arte scultorea figure come gli amorini, strettamente connessi alla sfera dell’eros, sono stati trasformati in angeli. Spesso, inoltre, si prelevavano dalle strutture in rovina i loro elementi costitutivi: frammenti architettonici, decorativi e funerari potevano essere impiegati nelle nuove costruzioni come semplice materiale edilizio oppure, se particolarmente pregiati, potevano essere esibiti per la loro bellezza. Quando possibile, si riutilizzavano mantenendo la funzione per cui erano stati prodotti.
All’interno dei Musei Civici di Reggio Emilia, è presente un esempio di reimpiego che ci riporta alla dicotomia sacro/profano. Si tratta di un bassorilievo in marmo rosso di Verona, collocato inizialmente nel muro dell’orto del convento cittadino di S. Tommaso e poi in una casa privata, che rappresenta una Madonna seduta su un trono con bambino benedicente, realizzato secondo alcuni studiosi tra la fine del XII e l’inizio del XIII d.C, secondo altri nel pieno XII d.C. Se ruotiamo la lastra, però, noteremo un’iscrizione romana in distici elegiaci, bordata da un fregio d’acanto e datata al I d.C.! La storia di questa epigrafe s’intreccia a quella di altre due conservate nella parrocchiale di Novi di Modena (all’epoca parte della diocesi di Reggio) e a Carpi.
Tutte e tre rimandano a un certo Plotius: quelle di Reggio e di Carpi costituiscono parti di uno stesso monumento funerario, mentre quella di Novi, che presenta lo stesso epitaffio e lo stesso nome, potrebbe essere appartenuta alla tomba di un omonimo o di un componente della stessa famiglia. Sono poi state recuperate in epoche successive ed è stato attribuito loro un senso differente da quello originario: infatti, così come sull’esemplare di Reggio, sul lato opposto alla scritta della lastra di Novi, reimpiegata come pluteo, fu riprodotto agli inizi del XIII d.C. un Cristo in mandorla tra i simboli degli Evangelisti, mentre la lastra di Carpi venne riutilizzata nel sarcofago quattrocentesco di Marco Pio nella chiesa di S. Francesco.
Facciamo un passo indietro: quante volte, camminando per le strade delle nostre città, abbiamo notato questi materiali inglobati in palazzi e strutture pubbliche?
In museo abbiamo diversi casi anche di questo tipo, alcuni dei quali riconducibili all’età rinascimentale e moderna, ma ci soffermeremo solo su due particolarmente significativi. Il primo riguarda il monumento sepolcrale dei Petti, una stele a edicola del I d.C. al centro della quale sono scolpiti un uomo e una donna che si stringono la mano destra nell’atto della dextrarum iunctio, che sancisce l’unione coniugale tra i due e la cessione della dote della donna alla famiglia del futuro marito. Appartenuta alla necropoli orientale di Regium Lepidi, presso S. Maurizio, venne rinvenuta durante il Cinquecento nelle terre dei conti Malaguzzi che la murarono sulla facciata della loro villa consentendo così al pezzo di conservarsi e arrivare ai giorni nostri.
Il conte Malaguzzi, infatti, è stato tra i primi a valorizzare i monumenti antichi all’interno della sua tenuta, creando una sorta di lapidario ante litteram e preservando in questo modo materiali che altrimenti sarebbero andati distrutti o perduti. Similmente, il cippo dedicato a Terminus (divinità romana che presiedeva ai confini dei campi e delle pietre terminali), che in antico doveva forse indicare uno dei limiti di Regium Lepidi, fu collocato, dopo la sua scoperta nel Cinquecento, sulla cantonata di un altro palazzo cittadino. Anche in questo caso tale pratica ha avuto risvolti positivi: l’oggetto, così conservatosi fino all’Ottocento, dopo la distruzione dell’abitazione divenne parte della prima raccolta di marmi antichi reggiana, all’epoca allestita sotto i portici del municipio.
Maria Chiara Mastroianni
Martina Ciconte
BIBLIOGRAFIA
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